«Il turbamento che ci prende, quando sentiamo dire “la guerra è normale” deriva dalla confusione insita nell’uso di quell’aggettivo. “Normale” può essere inteso in due modi, che tendono a fondersi insieme ingenerando in noi l’impressione che ciò che è normale (medio) è anche standard e giusto, ovvero è il giusto parametro. […] Nella seconda accezione “normale” rimanda a “ideale”. Vi si sente ancora la radice della parola: retto, corretto, esatto; ma adesso questi termini descrittivi, tecnici sono normalizzati in metafore. “Norma” oggi significa parametro, paradigma: un’immagine precostituita stabilisce la norma, il modello, la regola. […] Quando i due significati si fondono in riferimento alla guerra, allora la descrizione del combattimento diventa prescrizione del combattimento. Ciò che “dovrebbe” essere (ciò che è giusto che sia) diventa “ciò che fa la maggioranza.”» (Un terribile amore per la guerra, James Hillman, Adelphi 2005, seconda ed.)
Kilo two bravo è un bellissimo film. Intenso, coinvolgente, autentico. Quando sono entrata in sala non avevo la certezza di quello che mi sarei trovata davanti. Mezz’ora dopo saltavo sulla sedia, allo scoppio di una mina, con le mani davanti alla bocca per lo spavento. Fa riflettere. Fa riflettere sul senso delle azioni che l’esercito intraprende, sul coraggio degli uomini e soprattutto fa riflettere su quanto profondamente la guerra, qualunque guerra sia, cambia la realtà, le persone, i territori, le regole di vita, senza che alla fine nessuno di coloro che erano presenti e sono sopravvissuti si stupisca più di niente. Banale? Forse non è mai banale dirselo, ricordarlo. Sicuramente non quando viene rappresentato come in questo film, con un grande amore per la realtà umana della guerra, al di là della retorica, in una situazione che si sarebbe dovuta svolgere in maniera del tutto diversa.
James Hillman scriveva ancora:
«Gli scrittori, specialmente gli scrittori di guerra, non creano ma ricreano, e la lettura è insieme ricreazione e ri-creazione di ciò che è sfuggito alla presa del presente per nascondersi nei recessi dell’anima, di ciò che è rimosso, dimenticato. Il nome di questo vuoto fatto di amnesia è “pace”, la cui prima concisa definizione è “assenza di guerra”. In senso estensivo, così il vocabolario definisce la pace: “libertà da, o cessazione di, guerre o ostilità; la condizione di una nazione o comunità che non è in guerra con un’altra”. E ancora: “libertà da conflitti o perturbazioni, specialmente come condizione individuale; tranquillità, serenità.”»
Kilo two bravo ri-crea. Ricrea una situazione paradossale, o apparentemente paradossale. Una di quelle situazioni non pianificate, che non dovevano esserci, che non portano a gloriose vittorie in stile hollywoodiano. Ricrea la realtà della guerra, che per bene che vada ha sempre qualcosa che sfugge alla comprensione di chi, la guerra, si rifiuta di contemplarla. Di chi la rifiuta pensando che non possa ASSOLUTAMENTE far parte di lui, o lei, o della propria civiltà.
Eppure la guerra fa parte della nostra vita quotidiana. Fa parte della natura dell’uomo. Mai come in questo periodo si ha la sensazione di fare la fine della “rana bollita”, vedendo camionette piene di militari girovagare in nome della pace attorno a monumenti storici per difenderci da un nemico che non conosciamo e nemmeno riusciamo a vedere. Un nemico pericoloso, ma pur sempre ipotetico, fantomatico, che si muove nell’ombra e tra le pagine di internet, sui quotidiani. Un “nemico” che non riusciamo a definire, che spiamo e per trovare il quale ci spiamo a vicenda. Un nemico incorporeo, fatto di fantasie; difficile da percepire, come il fantasma di un inconscio dimenticato, sconnesso, schiacciato.
Diceva Umberto Eco:
«avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo (…). Sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità.» (Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Umberto Eco, Bompiani 2011, prima ed.)
In una situazione di questo genere, Kilo two bravo è stata, per me, dal punto di vista psicologico, una visione davvero particolare. Forte. Un problema concreto, con persone reali. Una tensione inscioglibile, fino alla fine, ma le cui cause hanno risvolti pratici. Una situazione dove non esistono eroi che arrivano giusto in tempo e dove non ci sono soluzioni dal sapore magico. Una situazione vera, come quella da cui la pellicola è stata tratta. Eppure anche il nemico di questa narrazione è invisibile, ignoto, perfino assente. I soldati rischiano la morte e dovranno ricorrere a ogni risorsa e briciola di coraggio per cavarsela, eppure le mine non sono state messe lì da qualche talebano. No, le mine sono russe e originariamente erano collocate con un senso, più in alto, sulla collina. Ci ha pensato la pioggia, forse, qualche frana, magari, a portarle a valle.
Riprendiamo ancora Hillman:
«quando Freud e Kant, in epoche e con modalità di pensiero molto diverse,
affermano che la civiltà trae la sua spinta progressiva dal suo essere fondata
nella naturalità della morte e nella normalità della guerra, danno ragione ad Eraclito: sì
”Polemos di tutte le cose è padre”, la guerra è il principio generatore del risveglio, e questo era,
io credo, il principale messaggio di Eraclito, lo psicologo.
Eraclito riceve conferma da Michel Foucault, il quale,
come Lévinas, porta avanti la grande tradizione francese del pensiero penetrante.
La sua “tesi di guerra” capovolge la formula di Clausewitz (la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi):
la politica è la guerra continuata con altri mezzi e non solo la politica ma anche “la legge e l’ordine”.
Il diritto anglosassone discende in buona parte dal costume germanico secondo il quale i processi
erano decisi con la forza, producendo vincitori e vinti inequivocabili, sicché “il diritto [era] un
ruolo particolare e regolamentato di condurre la guerra.”(Foucault)
L’indagine dei fatti per stabilire una verità imparziale arriva più tardi sul panorama della storia,
come un riemergere dell’uso greco e latino. L’antico diritto germanico offre il modello
all’ipotesi generale di Foucault che eleva la guerra a fondamento dell’ordine sociale:
”la storia che ci regge e ci determina ha la forma della guerra più che del linguaggio: rapporti di potere,
non rapporti di senso.”
Le argomentazioni della giurisprudenza e i dibattiti della politica usano il linguaggio per camuffare un conflitto
guerresco, “eludendo il suo carattere violento, cruento e letale con il ridurlo alla serena forma platonica
del linguaggio e del dialogo.” (Foucault)
Il principio non era il Verbo, ma la Guerra.
”Lo stato nasce nella violenza” conferma Philip Bobbitt “soltanto quando ha ottenuto un monopolio legittimo
sulla violenza esso può promulgare la legge”.»
Mi domando da un po’ di tempo cose apparentemente semplici: qual è una definizione positiva, “autonoma”, di pace? Che ruolo hanno i mass media, in questo momento? Quanto e come conta, o dovrebbe contare, l’emotività? Come e perché e in quale direzione, si può mantenere salda la presa sui valori positivi della democrazia? Sono accessibili? Che significato hanno, oggi, parole come “tolleranza”, “integrazione”, “accoglienza” e soprattutto “identità”?