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Questions and doubts

Migrazioni e fede: American Gods

American Gods è la serie che meglio rappresenta la società liquida di oggi e le sue evoluzioni in termini di senso di appartenenza, emozioni e significati “migranti”.

L’immaginazione di Neil Gaiman (autore del libro omonimo da cui è tratta la serie) non smette di affascinare e la sua natura composita e sfaccettata è quanto mai evidente nella produzione della serie American Gods, realizzata da Bryan Fuller e Michael Green, che hanno conservato il tocco 90s dell’originale.

La storia si snoda sulle strade degli Stati Uniti, che assumono il ruolo di un grande raccoglitore di sogni, speranze, emozioni. Si perchè, al di là dei miti e delle simbologie, quello che viene ritratto magistralmente nel romanzo (e staremo a vedere la serie), è la natura composita della nostra realtà, ormai globalizzata, mediatica, in costante movimento.

Ma a rendere affascinante la serie non è certo questo. Al contrario, è la sotterranea lotta che ogni credenza affronta per essere ancora valida. Ancora creduta. E in questo, il racconto di Gaiman è due volte mitico: lo è perchè racconta di miti e di dei, e lo è perchè racconta la storia Shadow, il protagonista, che dal non credere in nulla si trova a orientarsi in un mondo dove il bene e il male viaggiano a braccetto e dove il versante simbolico di ogni gesto ha più valore dell’atto pratico.

In tutto questo, non posso non pensare a quanto, dall’essere una fotografia della società americana, questo scenario sia passato ad essere applicabile a livello generale per molti paesi, con intensità e declinazioni differenti: paesi fatti di persone provenienti da ogni angolo, ognuna con il suo retaggio di credenze, abitudini, culture, interpretazioni.

Non riesco a non pensare ad Arjun Appadurai: “viviamo in un mondo in cui siamo, al tempo stesso, troppo vicini e troppo lontani gli uni dagli altri”.

Una girandola simbolica di credenze lontane e vicine, nel tempo e nello spazio, che uniscono e che dividono, scandendo corsi e ricorsi storici, in una circolarità del tempo che, a percepirla, sembra più legata alla realtà che alla fantasia. Ecco cos’è American Gods.

A Pereira effect. Social Media… and actual action.

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Pereira is the protagonist of a famous Italian novel. He is a Portuguese 50 years old journalist who doesn’t recognize himself anymore in the surrounding reality. How to blame him? At the time Portugal turned into a fascist dictatorship. The novel is pervaded by a sense of loneliness and nostalgia, but what is to be highlighted here is the feeling of alienation (straniamento) that Pereira lives. How to connect this with current “social-media-times”?

Even though he’s a journalist, Pereira is not properly informed on what happens in his country and, in the end, it will not be rationality to guide him, but what Tabucchi calls “the reasons of the heart”.

Nostalgia persuades him to “date the past” instead of the future until something happens. Among the reasons why a character such as Pereira might be considered contemporary there’s the fact that his feelings could be much more similar to how lots of people currently feel about information through Social Media and Big Data – and all the related changes in political campaigning, for example – than it might appear at a first glance.

Are we all, somehow, small Pereiras, full of nostalgia but also in need of a big change? A liberatory change (sometimes holding revolutionary claims) that might seem to be prêt-à-porter thanks to ICTs and Big Data predictions. Luciano Floridi and other scholars came up with the concept of onlife. According to Floridi ICTs put under discussion one of the basic assumptions of the modern anthropocentric way of thinking: being agent oriented; in favour of being patient oriented. Ethical issues seem then to parallel those about politics or the environment. At the centre of the ethical discussion is the world (ontocentrism) and the way human beings question themselves according to their relations with it.

Big Data are one product of interactions, and platforms’ design shapes, only in part, the kind of data produced and the way it circulates. Amid Ekbia, with a team of scholars, proposed an interdisciplinary analysis to sum up the main issues and approaches related to Big Data. Manuel Castells, some years ago, underlined how the ideology of freedom, diffused in the internet world, was not a founding one. This ideology did not interact directly with the development of the technological system: “freedom can be used in many ways”. Floridi proposed a very interesting reflection in a conference entitled “The value of Uncertainty”, concerning power structures, and came up with the observation that power (related to technology in hyperhistory) lies often in the uncertainty levels, i.e. sometimes related to what might be called “information overload”.

As a consequence, who shapes the questions, also shapes the possible answers. Slavoj Žižek focused on the repetition of an event in relation to its interpretations. By observing several cases in history and literature, (as the case of Caesar’s assassination), Žižek notes that “interpretation starts to work always too late, with a bit of delay, when the event to interpret repeats itself; the event cannot be intended as regulated until its first appearance”. He states that the event that repeats itself “receives its law retroactively, through repetition”, it is this way that the symbolic appropriation of a traumatic event, interpretation par excellence, takes place.

Referring again to Pereira, what “triggers” his decision to act (or react) is a precise traumatic event that he can actually master. The boy that was working for him gets killed and the reality that Pereira was already able to see, but was also trying to ignore, pops up: he knows what to do. He was a former reporter and used to write on murder cases. Therefore he writes an article (“appropriation” action?) that will be published on his newspaper, and leaves the country (“defensive” re-action?).

In relation to the perception of reality and the value of uncertainty, the feeling of alienation might rise in accordance with the lack of understanding (and trust) of power structures and policies. As long as most persons will not be able to grasp what’s beyond what they perceive as an undefined change, they may not turn into “operative” Pereiras. Big Data and Social Media represent that thin veil that separates the symbolic (and actual) appropriation of contemporary reality, from its undefined perception.

What matters is how people happen to break through that veil. Voting is one option.

 

Rogue One. Lets rock.

Nel caso non lo foste già, quest’anno, posso garantirvi, è l’anno in cui cederete e finalmente vi innamorerete di Star Wars. Perchè? Beh, perchè “Rogue One: a Star Wars Story” è semplicemente meraviglioso.

Qualcuno si chiederà che cosa ci sia mai da dire di positivo sull’ottavo film legato a una saga ormai iper-commercializzata e per la quale tutti gridano “meraviglia!” alla prima scemenza. Mi pare un atteggiamento sensato. Anche io la pensavo così, e per pura e semplice nostalgia sono andata a vedere un film che, tutto sommato, non mi sembra sia nemmeno stato particolarmente pubblicizzato.

A trascinarmi in sala sono stati i ricordi. Non certo la passione per la cinematografia. Quella robaccia propinataci l’ultima volta stava in piedi esattamente grazie a questo. Come ogni fan ho adorato rivedere sullo stesso schermo gli attori di un tempo, ma la cosa, ehm, finisce lì. Dai, parliamone, a questo Kylo Ren, interpretato da Adam Driver (il cattivo della situazione, per intenderci) viene voglia di dare uno scappellotto e confiscare le chiavi del motorino. Sembra un Darth Veder in preda a tempeste ormonali di vario tipo.

Bene. “Rogue One” è tutta un’altra storia. Credetemi. Forse può lasciare delusi perchè non ci sono jedi da nessuna parte, ma nemmeno nell’episodio “A New Hope” c’erano. Quest’ultimo episodio si inserisce appena prima. Tra la nuova e la vecchia trilogia per intenderci. Il capitolo più buio della resistenza che si trova a fare i conti con un impero all’apice della sua potenza. Avete presente la scena in cui viene decisa la missione in cui gli X-Wing degli Star Fighter devono distruggere la Morte Nera?

Ecco. “Rogue One” si inserisce nel punto oscuro della trama che avrebbe consentito di arrivare qui. E a ritornare alla mente, sono forse più i film di guerra come “The dirty dozen” (in una versione edulcorata e non tarantiniana – ps.il trailer è lunghissimo).

Oppure “The Enemy at the Gate”, per questioni più… romantiche (potrei aver forzato questo paragone perché adoro questo film). Il punto in ogni caso è questo: a venire alla mente, oltre alle caratteristiche della saga e legate al mondo della fantascienza, sono i film di guerra. E questo significa una cosa in particolare: che è stata prestata grande attenzione alla storia, più che all’effetto sul mercato. Siamo davanti a un film e non a uno spot. Finalmente.

Ritornano i temi cari alla saga di Star Wars che davvero l’hanno resa popolare (e non i temi riproposti da esattori commerciali che non vedono l’ora di vendere più action figures). E stiamo parlando dell’impero che ricorda i nazisti (torna anche la ricostruzione digitale credibile di Peter Cushing nei panni di Grand Moff Tarkin, insieme ad altre che vi lascio il piacere di scoprire), c’è l’eroe sotto traccia che vive sotto il ricatto dell’impero (il progettista della Morte Nera), il condottiero scontroso con un robot dal carattere peculiare, e un personaggio femminile forte, che non manca mai, ma che in questo caso fa davvero bella figura accanto a Leia, a cui passa il testimone. E poi beh, poteva mancare una storia d’amore?

“Rogue One: a Star Wars Story” è un signor film. Vale assolutamente la pena di vederlo e di farsi riscaldare il cuore a dispetto della credenza che ogni cosa che finisca per essere eccessivamente mercificata non può mantenere una buona qualità. Forse è passato come puro spin-off, e questo gli ha dato un vantaggio in termini di trama, ma è sempre Star Wars. Quello vero. Riporta a galla passioni sopite, per me, almeno dagli anni novanta.

Serate blu elettrico

Ci sono sere in cui una giovane donna può ufficialmente dire di “essere blu”. E mentre ascolti una colonna sonora jazz, perfetta per te, desiderando di essere una di quelle figure malinconiche dei fumetti che osservano la città dall’alto con un bicchiere in mano, maledici un po’ gli stereotipi che le hanno volute per lo più al maschile. La mia figura di questa settimana per i momenti di contemplazione tempestosa è il Maggiore di Ghost in the Shell, la colonna sonora, invece, è quella di Cowboy Bebop e le parole sono quelle, intramontabili, di Eugenio Montale (che era uomo, ma per questa volta ci passerò sopra). Giusto per stare in quel mondo a metà tra melanconia e auto-ironia, che, alla fine, strappa un sorriso. E non ci pensi più.

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

si qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

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Deepwater Horizon. Eroi e mostri.

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Un film che mette in evidenza la concezione americana del lavoro. Questo è quello che, dopo lunghe riflessioni non sono assolutamente riuscita a mettere in discussione e che si è stampato per sempre nella mia mente in relazione a ‘Deepwater Horizon – inferno sull’oceano’.

Ho letto diverse recensioni del film e ho notato come l’accento si ponesse in alcuni casi sul fatto che questa produzione sfidava le compagnie petrolifere, mettendo “a nudo” una vicenda che di buono non ha nulla. Quello che mi ha colpita, al di là dell’avvenimento (https://en.wikipedia.org/wiki/Deepwater_Horizon_oil_spill), che tra l’altro ricordo bene per essere passato sovente su giornali e telegiornali, è stato il carattere che si è voluto dare ai lavoratori della piattaforma.

Per amore di sintesi ho cercato più volte di descriverlo con una parola sola: coraggiosi? Fortunati? Spaventati? Sopravvissuti? Ma ogni volta qualcosa sfuggiva e in ogni caso il carattere essenziale dei personaggi non sembrava essere descritto in modo appropriato. Poi ci sono arrivata. Indipendenti. Nonostante siano, proprio, ‘dipendenti’, quello che viene mostrato è un carattere forte, deciso, davvero ‘indipendente’ nel limite del possibile. In tutto il film appaiono in ogni sfumatura emotiva – dallo stress alla disperazione, per lo più – ma nonostante la rigida gerarchia imposta non viene mai messa in discussione la loro essenza indipendente e la capacità decisionale autonoma in relazione ai doveri del lavoro. In pratica, la forza del loro carattere. I cavalieri della piattaforma?

Punto più alto di questo ritratto ideale è, non tanto la riunione indetta dal responsabile per la sicurezza, Mr. Jimmy, ma il breve scambio di battute tra il protagonista e uno dei dirigenti della British Petroleum (quest’ultimo interpretato da John Malkovich). A partire dall’inizio il petrolio è associato ai dinosauri (emerge la sua origine preistorica, atavica, antica), e in seguito a un mostro per affrontare il quale è necessario prepararsi a dovere.

Nel corso del dialogo, il protagonista descrive questa necessità attraverso la metafora della caccia al pesce gatto (tra l’altro ‘catfish’ – pesce gatto – in inglese è un’espressione gergale che si usa anche per le identità fasulle, per chi si maschera dietro un falso nome… che indirettamente si riferisca al dirigente-mostro che di lì a poco spingerà la situazione oltre il limite sostenibile, non è un’ipotesi troppo fantasiosa). Lo scambio, piuttosto duro, si conclude con la battuta: “Mh Mh, la speranza, non è una strategia”.

Qui si trova, in estrema sintesi, il giudizio sanzionatorio degli eventi, la chiave interpretativa dell’intero film. La caccia al pesce gatto si fa facendosi mordere di proposito, per stanare l’animale. Esserne consci e avere la giusta preparazione sono i requisiti essenziali alla riuscita. Non ci si avventura in questa impresa sperando che le cose non prendano una brutta piega, che vadano bene. Un ragionamento estremamente problematico, per molte amministrazioni, pubbliche e private, anche al di fuori del mondo degli estrattori di petrolio. Ma la domanda cinica da fare è: che le cose vadano bene, per chi? Qui, si sviscera tutta l’identità di questi americani che, forse, recentemente, hanno perfino votato Trump.

Sono, in un certo senso, consapevoli di quello che fanno. Vogliono dare l’impressione di aver scelto le condizioni della propria vita. Eppure, si scontrano con le classi che, da quella vita, hanno avuto occasioni migliori. Per controbilanciare la cosa, si qualificano, seppure sottoposti all’amministrazione malsana di dirigenti incoscienti e tutti orientati al profitto, come i veri detentori della competenza e del senso del loro lavoro. Della cultura che lo ha generato. Sono, in definitiva, nei limiti di ciò che la realtà gli ha posto davanti al momento della nascita, imprenditori di se stessi e si considerano indipendenti nel giudizio. Non perdono la loro individualità nel gruppo. Detengono e rimarcano una libertà decisionale autonoma che però, anche nella solidarietà più forte, non prende mai quella piega sociale-comunitaria che ci si potrebbe aspettare in Europa.

La preghiera finale conclude questo ritratto e pone davanti agli occhi dello spettatore europeo un’America che riconosciamo meglio quando pensiamo a opere letterarie come Moby Dick. I figli di Melville, piegati e distrutti dalle avversità, non possono fare altro che mettersi nelle mani di un Dio che, qui, sembra quasi sive natura. Ad aumentare il senso di scarna reminiscenza letteraria il grosso uccello (forse un pellicano) che, poco prima del disastro totale, coperto dagli spruzzi di petrolio, si schianta dentro la cabina di pilotaggio della nave che raccoglierà i superstiti.

A controbilanciare un petrolio-mostruoso, quasi antropomorfo, che sgorga dal terreno e contro il quale gli operai-eroi si battono valorosamente, spicca la mancanza di ogni menzione, se non per iscritto e ovviamente in coda, del disastro naturale che sta prendendo avvio. Segno di quanto, uomo e natura, ancora, facciano fatica ad avvicinarsi e intendersi.

Dunque, mi chiedo, cosa voleva comunicare davvero questo film? Avrà raggiunto i suoi obiettivi? Agli spettatori il compito di rispondere.

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Planetario di Torino: Gatto Ciliegia incontra il signor Palomar

Il signor Palomar si chiede: come guardare le stelle, i pianeti? E si sente in colpa, come me, nelle sere estive, in cui il cielo è terso. Tanta bellezza, sprecata.

La riflessione in musica e parole proposta da Gatto Ciliegia contro il grande freddo al planetario di Torino è capitata la sera del mio compleanno.

Basta poco, alla fine, per essere felici. Un sorriso, un abbraccio. Una bella sorpresa da chi non ti aspetti. Una vecchia amica incontrata per caso. E le stelle proiettate sul soffitto tondo di una gigante sfera rossa.

Guardo i pianeti roteare, sento la musica modificarsi. Ascolto il tono della voce che surfa sulle parole di Italo Calvino mentre passando in mezzo agli anelli di un Saturo dolcissimo, ci avviciniamo a Giove. Le parole di un altro vecchio libro a rimbalzare nella mia testa:

Immettendo il sublime nel bello, quasi a nascondervelo, Kant pose le basi del sentimento romantico della bellezza intesa come forza universale suscitatrice di reverente timore e di sgomento che presiede all’universo intero come una sorta di principio supremo. Dentro il caos assoluto si cela una struttura di significato, una ricchezza di senso, che non si riscontra in alcun altro luogo.”James Hillman.

Una pizza, a Moncalieri.

Moncalieri. Notte. Novembre.
Moncalieri è una di quelle cittadine nella cintura di Torino di cui si sente parlare ma che fondamentalmente passa inosservata. Anche nel corso di anni non mi è mai venuto in mente di andarci. Un messaggio, verso le sette mi dice: “pizza?” E pizza sia. Mi avventuro attraverso strade e stradine alla volta di questa parte inesplorata di tessuto suburbano. Una giornataccia stava per trasformarsi.

La città è dominata da una collina. Non c’è stacco con Torino e a meno di leggere i cartelli, si potrebbe pensare di non esserne mai usciti.
Sulla collina c’è un castello. Il castello è una caserma dei Carabinieri; è protetto dall’Unesco. Il centro è piccolo, antico, accogliente. Il tripudio dei mattoni. A chi lo visiti a piedi calza come un guanto. Un tuffo nella storia e un piccolo rifugio, dove si trova anche il Real Collegio Carlo Alberto. Arrivare non è uno scherzo. Ci sono rotonde e ponti dell’autostrada e della ferrovia. C’è una differenza abissale tra quello che si trova sotto la collina e quello che sta in cima. Eppure arrivo.

Due chiacchiere e una birra e poi via. Da Acqua Farina e Sale; in quella parte di palazzi e cemento, uguali ovunque, da queste parti, che più vivamente rappresentano la provincia della mia infanzia. Ordiniamo e… la serata scivola via in men che non si dica. Il locale è semplice, accogliente. Piccolo piccolo. Perfetto. Non ci si può non sentire a proprio agio. Amo la farinata e qui la fanno anche di ceci neri. Per accompagnarla ci viene proposta una salsiccia cruda, toscana. Si spalma come se fosse burro. Dividiamo. Poi pizza. La crosta è tutta un programma: farina integrale, morbida dentro, leggermente croccante fuori. Insomma, un paradiso annaffiato di birra trappista, in un luogo tanto improbabile (anche per me che pure non sono forestiera) quanto magico. Un momento si serenità ritagliato alla perfezione. Forse è solo fortuna, ma certo è, che di serate che si trasformano così, dovrebbero essercene di più.

Le lacrime di Nietzsche

friedrich-nietzsche-watercolor-portrait1-fabrizio-cassettaEsiste un film, con il titolo “Le lacrime di Nietzsche”, ma devo confessare di non essere riuscita a finire di vedere nemmeno il trailer. Il libro, invece, è davvero bello.
Da diverso tempo a questa parte, con fatica e solo dopo molto tempo, riesco a finire di leggere un romanzo. I perché e le scuse possono essere moltissimi: compro troppi libri e l’entusiasmo per una copertina nuova e pagine mai sfogliate mi fa saltare da una lettura all’altra; la lettura mi rilassa, mi metto a letto e… mi addormento; compro i libri sbagliati; non so trovare i momenti adatti alla lettura continuata. Insomma, è difficile trovare un libro che batta la stanchezza e sia ragionevolmente scorrevole da non farmi dormire. Una volta avevo più tempo da dedicare alla lettura ed ero vorace. Una sensazione che mi manca e che penso sia familiare per chiunque abbia mai amato leggere. Vorrei quel tanto che basta a raggiungere una sorta di equilibrio omeostatico e portarmi fino all’ultima pagina. Questo libro ci è riuscito.

Irvin D. Yalom, dice la quarta di copertina, insegna psichiatria alla Stanford University e vive e svolge il suo lavoro di psichiatra a Palo Alto, in California. Ha scritto numerosi best sellers internazionali. Credo di essere diventata una sua fan.
Nel corso del romanzo, per chi sa qualcosa di psicoterapia, è possibile forse valutare errori e colpi di genio di un quanto mai gentile dottor Breuer alle prese con una nuova “terapia basata sul parlare” e il suo paziente eccezionale, appunto, Friedrich Nietzsche.
Eppure i ruoli si ribaltano, la finzione diviene realtà e da tutto nasce una profonda amicizia. Un libro che deve essere letto con attenzione, ma il cui flusso scorre senza problemi per tutto il tempo.
Non sono mai stata una grande fan di Nietzsche. Principalmente a causa delle sue idee sulle donne e in seconda battuta perché trovo irritante il tono profetico che certi filosofi hanno. Eppure… eppure ho ri-scoperto come in un certo senso, nascosto nelle pieghe di altri studi, letture e pensieri (anche i più banali, sul vivere quotidiano), Nietzsche era lì. Pronto a farmi l’occhiolino (ok, non era tipo da occhiolini, ma l’immagine mi piace).
Insomma…se decidete di leggerlo, mettetevi comodi e preparatevi a esplorare quell’ “un po’” di Nietzsche e di Breuer che c’è in voi, mentre iniziate a pensare in modo diverso, beh, alla vita, all’universo e a tutto quanto.

Kilo two bravo ovvero un terribile amore per la guerra

kilo-two-bravo-gallery-3«Il turbamento che ci prende, quando sentiamo dire “la guerra è normale” deriva dalla confusione insita nell’uso di quell’aggettivo. “Normale” può essere inteso in due modi, che tendono a fondersi insieme ingenerando in noi l’impressione che ciò che è normale (medio) è anche standard e giusto, ovvero è il giusto parametro. […] Nella seconda accezione “normale” rimanda a “ideale”. Vi si sente ancora la radice della parola: retto, corretto, esatto; ma adesso questi termini descrittivi, tecnici sono normalizzati in metafore. “Norma” oggi significa parametro, paradigma: un’immagine precostituita stabilisce la norma, il modello, la regola. […] Quando i due significati si fondono in riferimento alla guerra, allora la descrizione del combattimento diventa prescrizione del combattimento. Ciò che “dovrebbe” essere (ciò che è giusto che sia) diventa “ciò che fa la maggioranza.”» (Un terribile amore per la guerra, James Hillman, Adelphi 2005, seconda ed.)

Kilo two bravo è un bellissimo film. Intenso, coinvolgente, autentico. Quando sono entrata in sala non avevo la certezza di quello che mi sarei trovata davanti. Mezz’ora dopo saltavo sulla sedia, allo scoppio di una mina, con le mani davanti alla bocca per lo spavento. Fa riflettere. Fa riflettere sul senso delle azioni che l’esercito intraprende, sul coraggio degli uomini e soprattutto fa riflettere su quanto profondamente la guerra, qualunque guerra sia, cambia la realtà, le persone, i territori, le regole di vita, senza che alla fine nessuno di coloro che erano presenti e sono sopravvissuti si stupisca più di niente. Banale? Forse non è mai banale dirselo, ricordarlo. Sicuramente non quando viene rappresentato come in questo film, con un grande amore per la realtà umana della guerra, al di là della retorica, in una situazione che si sarebbe dovuta svolgere in maniera del tutto diversa.

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James Hillman scriveva ancora:

«Gli scrittori, specialmente gli scrittori di guerra, non creano ma ricreano, e la lettura è insieme ricreazione e ri-creazione di ciò che è sfuggito alla presa del presente per nascondersi nei recessi dell’anima, di ciò che è rimosso, dimenticato. Il nome di questo vuoto fatto di amnesia è “pace”, la cui prima concisa definizione è “assenza di guerra”. In senso estensivo, così il vocabolario definisce la pace: “libertà da, o cessazione di, guerre o ostilità; la condizione di una nazione o comunità che non è in guerra con un’altra”. E ancora: “libertà da conflitti o perturbazioni, specialmente come condizione individuale; tranquillità, serenità.”»

Kilo two bravo ri-crea. Ricrea una situazione paradossale, o apparentemente paradossale. Una di quelle situazioni non pianificate, che non dovevano esserci, che non portano a gloriose vittorie in stile hollywoodiano. Ricrea la realtà della guerra, che per bene che vada ha sempre qualcosa che sfugge alla comprensione di chi, la guerra, si rifiuta di contemplarla. Di chi la rifiuta pensando che non possa ASSOLUTAMENTE far parte di lui, o lei, o della propria civiltà.

Eppure la guerra fa parte della nostra vita quotidiana. Fa parte della natura dell’uomo. Mai come in questo periodo si ha la sensazione di fare la fine della “rana bollita”, vedendo camionette piene di militari girovagare in nome della pace attorno a monumenti storici per difenderci da un nemico che non conosciamo e nemmeno riusciamo a vedere. Un nemico pericoloso, ma pur sempre ipotetico, fantomatico, che si muove nell’ombra e tra le pagine di internet, sui quotidiani. Un “nemico” che non riusciamo a definire, che spiamo e per trovare il quale ci spiamo a vicenda. Un nemico incorporeo, fatto di fantasie; difficile da percepire, come il fantasma di un inconscio dimenticato, sconnesso, schiacciato.

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Diceva Umberto Eco:

«avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo (…). Sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità.» (Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Umberto Eco, Bompiani 2011, prima ed.)

In una situazione di questo genere, Kilo two bravo è stata, per me, dal punto di vista psicologico, una visione davvero particolare. Forte. Un problema concreto, con persone reali. Una tensione inscioglibile, fino alla fine, ma le cui cause hanno risvolti pratici. Una situazione dove non esistono eroi che arrivano giusto in tempo e dove non ci sono soluzioni dal sapore magico. Una situazione vera, come quella da cui la pellicola è stata tratta. Eppure anche il nemico di questa narrazione è invisibile, ignoto, perfino assente. I soldati rischiano la morte e dovranno ricorrere a ogni risorsa e briciola di coraggio per cavarsela, eppure le mine non sono state messe lì da qualche talebano. No, le mine sono russe e originariamente erano collocate con un senso, più in alto, sulla collina. Ci ha pensato la pioggia, forse, qualche frana, magari, a portarle a valle.

Riprendiamo ancora Hillman:

«quando Freud e Kant, in epoche e con modalità di pensiero molto diverse,
 affermano che la civiltà trae la sua spinta progressiva dal suo essere fondata
 nella naturalità della morte e nella normalità della guerra, danno ragione ad Eraclito: sì
”Polemos di tutte le cose è padre”, la guerra è il principio generatore del risveglio, e questo era, 
io credo, il principale messaggio di Eraclito, lo psicologo.
 Eraclito riceve conferma da Michel Foucault, il quale, 
come Lévinas, porta avanti la grande tradizione francese del pensiero penetrante.
 La sua “tesi di guerra” capovolge la formula di Clausewitz (la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi):
 la politica è la guerra continuata con altri mezzi e non solo la politica ma anche “la legge e l’ordine”.
 Il diritto anglosassone discende in buona parte dal costume germanico secondo il quale i processi
 erano decisi con la forza, producendo vincitori e vinti inequivocabili, sicché “il diritto [era] un
 ruolo particolare e regolamentato di condurre la guerra.”(Foucault)
 L’indagine dei fatti per stabilire una verità imparziale arriva più tardi sul panorama della storia,
 come un riemergere dell’uso greco e latino. L’antico diritto germanico offre il modello 
all’ipotesi generale di Foucault che eleva la guerra a fondamento dell’ordine sociale:
”la storia che ci regge e ci determina ha la forma della guerra più che del linguaggio: rapporti di potere,
 non rapporti di senso.”
Le argomentazioni della giurisprudenza e i dibattiti della politica usano il linguaggio per camuffare un conflitto 
guerresco, “eludendo il suo carattere violento, cruento e letale con il ridurlo alla serena forma platonica 
del linguaggio e del dialogo.” (Foucault)
 Il principio non era il Verbo, ma la Guerra.
”Lo stato nasce nella violenza” conferma Philip Bobbitt “soltanto quando ha ottenuto un monopolio legittimo
 sulla violenza esso può promulgare la legge”.»

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Mi domando da un po’ di tempo cose apparentemente semplici: qual è una definizione positiva, “autonoma”, di pace? Che ruolo hanno i mass media, in questo momento? Quanto e come conta, o dovrebbe contare, l’emotività? Come e perché e in quale direzione, si può mantenere salda la presa sui valori positivi della democrazia? Sono accessibili? Che significato hanno, oggi, parole come “tolleranza”, “integrazione”, “accoglienza” e soprattutto “identità”?

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